AULIDE. ULTIMI AGGIORNAMENTI SUL CASO IFIGENIA
MITO E RITO DEL SACRIFICIO
Secondo Carl Gustav Jung, l’allievo di Freud scopritore e studioso dell’inconscio collettivo, il sacrificio è legato alla necessità di cancellare la spinta istintuale che giace nel profondo dell’uomo, la “bestia” inaccettabile che sta in noi. Il sacrificio è una componente importante della vita umana, lo scoglio contro cui si scontra la vitalità naturale, il cupo viaggio nelle pieghe dell’impotenza dell’individuo alla ricerca del riscatto. E’ forse per questo che il Dio dei Cristiani ha patito, nella figura del Cristo, uomo – dio, il sacrificio della croce, riscattando l’umanità intera caduta nella colpa. Rito, mito e simbolo sono, com’è ovvio, strettamente connessi tra loro: a livello esoterico, il sacrificio è rappresentato dal numero dodici, l’Appeso della cartomanzia, numero che nei geroglifici egizi simboleggia “l’aia in cui viene battuto il grano”: come a dire che il sacrificio del grano è un momento inevitabile del successivo processo di fecondazione e germinazione dei chicchi. Fu appunto nelle società agricole del Neolitico che vennero praticati i primi sacrifici umani, al fine di propiziare la fertilità dei campi. I cacciatori del Paleolitico avevano cercato invece di impadronirsi della forza dell’uomo o dell’animale sacrificato attraverso il pranzo totemico, quasi a negare la morte quale evento doloroso. Ancora oggi, in Tunisia, per la festa del Sacrificio, che inizia il decimo giorno del dodicesimo ed ultimo mese dell’anno lunare musulmano, vengono sacrificati migliaia di montoni: i Musulmani intendono in questo modo ringraziare Dio per la salvezza concessa ai credenti. In tempi recenti, in India, la sposa accompagnava sulla pira il coniuge morto, costretta a subirne la stessa sorte.
Ma è senza dubbio il mito ad offrire i più numerosi esempi ed anche le chiavi di lettura del sacrificio: la storia antica è costellata di sacrifici praticati allo scopo di impadronirsi della forza dell’ucciso, di ottenere l’aiuto della divinità o di placarne l’ira scatenata da una presunta colpa.
Il rito del sacrificio fu “istituito” a partire dalla prima offerta sacrificale fatta a Zeus dal titano Prometeo: quest’ultimo ingannò il dio, inducendolo a scegliere per sé la parte meno ricca della bestia sacrificata, le ossa ricoperte di grasso. Da allora, nel sacrificio, gli uomini tennero per sé le carni e le interiora, riservando agli Dèi le ossa: solo in casi gravissimi immolavano olocausti, cioè bestie intere, ed è quanto fa Achille, in preda a un dolore selvaggio, sul rogo di Patroclo (Iliade, XXIII, 175-176).
Di fatto, il sacrificio sancisce la separazione fra il mondo degli uomini e quello degli Dèi, irritati dall’inganno che Prometeo aveva teso a Zeus. Da quel momento gli uomini tentarono di comunicare con gli Dèi attraverso un rituale magico, ripetitivo di gesti e formule primordiali, cercando con ciò di superare una distanza: quella medesima che le divinità annullano quando, ad esempio nell’Iliade, scendono a combattere a fianco degli eroi.
La risposta al sacrificio non è però scontata, e può essere negativa: nonostante lo scrupolo religioso, il dio può, all’insaputa dell’uomo, negare il suo consenso e rendere inutile, e tanto più triste e sconsolata, la preghiera dell’individuo, che ignora se i suoi desideri saranno, prima o poi, esauditi e non può che arrendersi comunque al volere oscuro degli Dèi (ad esempio, nel II canto dell’Iliade Zeus rifiuta di ascoltare le preghiere degli Achei che si accingono a rientrare in battaglia; nel III canto rifiuta di sancire i patti fra Achei e Troiani; e ancora, nel VI, Atena non accetta l’offerta delle donne di Troia). Agli albori della civiltà greca Agamennone sacrifica la figlia Ifigenia affinché le navi possano salpare per la guerra; mentre, tra gli Ebrei, Abramo è pronto a sacrificare il proprio figlio Isacco per obbedire alla volontà del suo Signore (Il Dio d’Israele interviene poi a impedire il sacrificio e salva il fanciullo sgomento, sostituendolo con un ariete rimasto impigliato tra i rami di un cespuglio). Nel canto III dell’Eneide, Andromaca racconta di Polìssena, giovane figlia del re di Troia, Priamo, sacrificata sulla tomba di Achille dal figlio di lui, Neottòlemo o Pirro. Achille si era invaghito della fanciulla ed intendeva farne la sua sposa: morto l’eroe greco, Polìssena fu costretta a seguire il destino del suo innamorato, nel giorno stesso in cui Troia era data alle fiamme. Senza dubbio, uno dei più conosciuti olocausti mitici riguarda i fanciulli e le fanciulle ateniesi che ogni anno venivano dati in pasto al Minotauro (il mostro mezzo umano e mezzo bovino nato dagli amori adulteri di Pasìfae con un toro inviato da Poseidone), quale tributo di guerra imposto agli Ateniesi dal re Minosse. Teseo, il giovane e prestante figlio di Egeo, re di Atene, si recò con le altre vittime designate a Creta, per uccidere il Minotauro. L’eroe riuscì nel suo intento grazie al prezioso aiuto della bella Arianna, la figlia del re Minosse, e di un gomitolo di filo che, sagacemente, il giovane svolse e poi riavvolse, riuscendo così a trovare la via per l’uscita dal labirinto, come aveva suggerito alla ragazza lo stesso costruttore, l’architetto Dedalo.
In questo modo l’olocausto umano viene interrotto. Ma la storia testimonia di un tempo in cui avvenivano sacrifici umani cruenti, un’età in cui un essere umano “consacrato” era la vittima prescelta per un rito religioso intriso di sangue. L’uccisione sacrificale consentiva il ripristino della normalità nei rapporti individuali, sociali e politici. Nel tempo, tuttavia, il sacrificio rituale è generalmente diventato incruento, lasciando solo alcune tracce dei riti antichi: anche oggi, infatti, nei momenti di difficoltà, l’uomo cerca un capro espiatorio o sacrifica qualcosa di sé (si pensi ai cosiddetti ex-voto, che ricordano per l’appunto le offerte fatte alla divinità per richiedere una grazia), nel tentativo di allontanare le difficoltà presenti e di attirare l’aiuto divino.
Nell’antichità molti erano comunque i Numi che richiedevano sacrifici umani: tra questi emergeva Artemide Tauria. Così, secondo l’altra versione del mito, Ifigenia, miracolosamente sopravvissuta al sacrificio, fu condotta dalla dea nella selvaggia Tauride, ove il re Toante la nominò sacerdotessa: la giovane figlia di Agamennone ricevette l’ingrato compito di sacrificare ad Artemide ogni straniero che fosse capitato da quelle parti. Un giorno vi giunse Oreste, con l’amico Pilade; i due fratelli si riconobbero e Ifigenia poté così lasciare la Tauride, ponendo fine all’atroce compito di sacrificare innumerevoli vite umane. Nel mondo greco, accanto a quello di Ifigenia, viene ricordato un altro olocausto mitico che, per una fortunata circostanza, fu poi evitato. Esione, la figlia di Laomedonte, il fondatore di Troia, fu data in pasto al mostro marino inviato dal dio Poseidone, irritato per una promessa non mantenuta dal padre di lei. Laomedonte, pur disperandosi per l’infelice sorte dell’amata figlia, fu indotto al sacrificio anche dalle pressanti richieste del popolo, timoroso di una eventuale, e più crudele, vendetta di un dio, che già esigeva un’innocente vittima come espiazione della colpa paterna. La bella fanciulla fu dunque legata a uno scoglio marino; la fortuna volle però che passasse davanti a lei la nave Argo con gli Argonauti e tutti questi eroi, guidati da Eracle, si precipitarono a salvare la disperata Esione. Se ne parla nelle Argonautiche di Apollonio Rodio (295-215 a. C), riprese in Roma da Valerio Flacco (morto nel 93 d. C.).
Uscendo dal mondo classico, scopriamo che i sacrifici umani venivano praticati in ogni parte del mondo: dall’area del Mediterraneo alle regioni asiatiche, africane e americane, dalle steppe del Nord Europa all’Oceania, come è testimoniato dai miti stessi di quei popoli e dai resoconti degli esploratori che visitarono quei luoghi e quelle popolazioni in epoche recenti, tra 1800 e 1900. Gli indiani Guayaquil dell’Ecuador, ad esempio, solevano offrire in sacrificio sangue e cuori umani al momento della semina ; gli abitanti di Canar, sempre in Ecuador, ogni anno, nel periodo della mietitura, sacrificavano cento bambini. Gli Dèi richiedevano dunque sacrifici umani di giovani vittime, solitamente le più belle del gruppo.
E’ così che, quando il sacrificio umano fu sostituito dal sacrificio animale, la vittima (dal latino victima), od ostia (hostia) se si trattava di piccoli animali, era la migliore dell’armento. Il passaggio dal sacrificio umano a quello animale è testimoniato dal canto III dell’Odissea, in cui si narra dei sacrifici di alcuni tori in onore del dio Poseidone, nella città di Pilo, dove, alla presenza di Nestore, viene immolata al dio anche una giovenca, sontuosamente agghindata per il rito, come prevedevano le usanze.
Nonostante questo, creature umane continuarono ad essere sacrificate in momenti e casi di particolare gravità, come racconta, ad esempio, Tito Livio nella sua opera Ab urbe condita, a proposito di un bambino “mostruoso”, e di due coppie di stranieri offerti agli Inferi durante la seconda guerra punica (XXII, 57).
Nel canto VIII dell’Eneide, Enea, giunto nel Lazio, sacrifica alla dea Giunone una scrofa con i suoi trenta bianchi porcellini, pagando così il suo debito nei confronti di una divinità poco benevola, che tuttavia gli ha permesso il raggiungimento delle coste italiche.
In un’opera in lingua sanscrita si narra invece che il re Yudhisthira aveva compiuto il sacrificio di un cavallo per purificarsi delle colpe commesse combattendo contro i suoi parenti. Il sacrificio richiedeva una ingente spesa e il re si mostrò seriamente preoccupato di questo, perché le casse dello Stato non contenevano altro che i frutti delle imposte e delle ammende. Emerge qui l’aspetto economico dei sacrifici.
In tutti questi episodi, il sacrificio appare direttamente; molte altre sono le situazioni invece in cui l’olocausto viene “camuffato”. Esempio ne è la vicenda di Edipo, che, appena nato, viene esposto dai genitori, vittima di un oracolo che prevede per l’innocente bambino un futuro carico di colpe. Il piccolo viene, di fatto, sacrificato e di quel periodo gli resterà l’indelebile cicatrice nel piede claudicante (Edipo significa infatti “piede gonfio”). Divenuto adulto poi, si acceca, in volontario sacrificio, quando scopre gli atroci delitti di cui, pur inconsapevole, si è macchiato: il parricidio e l’incesto. Altro famoso esempio è costituito da Didone, che si getta sul letto di morte trafiggendosi con la spada, poiché si sente colpevole della mancata fede al cenere del marito Sicheo: con il proprio sacrificio espia la presunta colpa e si nega alla vita, diventata ormai per lei insostenibile dopo l’abbandono di Enea e la perdita di prestigio nei confronti dei propri sudditi. E ancora, nella favola di “Amore e Psiche”, in Apuleio, Psiche viene esposta sulla roccia, quale vittima del mostro misterioso (Eros): così aveva previsto l’oracolo ai genitori disperati che, a lumi capovolti, in mesto corteo funebre, avevano accompagnato la fanciulla più bella del mondo sul luogo designato per il sacrificio.
Nel mito dunque il sacrificio è strettamente legato a un rito, e proprio dal sacrificio mitico prese forma la tragedia, che è appunto il “canto del capro” (da tràgos, capro e odé, canto) sacrificato. E’ per questo che la tragedia culmina nella morte del protagonista, vittima consapevole o inconsapevole dei misteriosi disegni del destino. Nelle Baccanti di Euripide, Agave, la zia del dio Diòniso (il Bacco dei Latini), in preda al furore orgiastico, uccide atrocemente il figlio Penteo, che si era opposto all’introduzione dello sfrenato culto dionisiaco nella città di Tebe. Il dio ha travolto la mente della donna e ha imposto il sacrificio del di lei figlio maschio. Così la tragedia ripropone, in termini letterari, il tema sacrificale, presente nella problematica esistenziale stessa dell’uomo.
Il topos della fanciulla esposta alle voglie di un mostro riappare nel poema Orlando Furioso, di L. Ariosto (1474-1533): si tratta di Angelica, legata ad uno scoglio dell’isola di Ebuda ed offerta in pasto a un’Orca, ma salvata da Ruggero; poi, nella medesima situazione, viene a trovarsi la povera contessina Olimpia, che sarà liberata da Orlando. Passando al cinema, tutti abbiamo visto almeno una volta un qualche King Kong. Ma qui siamo ormai in un’altra “mitologia”.
Il tema del sacrificio è anche frequentemente riproposto nell’immaginario popolare, in particolare in relazione a due periodi dell’anno: Carnevale e Quaresima. Carnevale deriva dall’espressione carnem levare e, a sua volta, rimanda a “carnale”: termine che definisce il periodo in cui si può mangiare la carne e, in senso più esteso, in cui sono permessi tutti i piaceri della carne. Durante il Carnevale si assiste infatti ad un vero e proprio scatenamento delle forze istintuali (come del resto nei Saturnali latini o nei giorni che precedevano il Capodanno mesopotamico), che culmina nel martedì grasso, quando il Carnevale, divenuto quanto mai “grasso” per ogni genere di vizi, compie il suo tempo ed è destinato a morire. Nelle pubbliche piazze è facile ancora oggi assistere al processo a re Carnevale, accusato di essere goloso, ubriacone e vagabondo, e alla sua uccisione rituale. Esso, sotto le spoglie di un grosso fantoccio variopinto, viene sacrificato dopo giorni di baldoria, e poi bruciato su un pubblico rogo. Con il sacrificio di Carnevale, compare la Quaresima, che inizia appunto il mercoledì seguente.
Il fantoccio Quaresima è proprio l’opposto di Carnevale: se quest’ultimo interpreta lo scatenarsi degli istinti, la prima simboleggia la morte del piacere. Quaresima (da “Quarantesima”, in quanto inizia quarantasei giorni prima della Pasqua) è la vecchia magra, goffa e ridicola che, nel folclore popolare spagnolo, ad esempio, scende in guerra contro Carnevale. Essa è, secondo alcuni antropologi, l’emblema della morte, come nella cultura pagana nordica, ma anche della morte del piacere e della carnalità, come nella cultura cristiana. Con Quaresima inizia il periodo dell’astinenza, della meditazione, della riflessione e del silenzio. Non è un caso che alla fine della Quaresima risorga la vita materiale e spirituale e che la Pasqua celebri la gioia della Resurrezione. Quarantasei giorni di magra Quaresima e di Morte sono tuttavia eccessivi: così si assiste, in alcuni paesi, alla festa della “sega vecchia” a metà Quaresima. La “vecchia” (la Quaresima) viene segata in due: il rito popolare, registrato ad esempio in Spagna, ma presente anche nell’Italia centrale, ripropone il tema del “sacrificio” (della “vecchia”) e, per un giorno, si interrompe il “magro”, con le sue ristrettezze e privazioni, ritornando a gioire. Secondo la cultura contadina, si devono fare lunghe scampagnate, per scacciare così, almeno momentaneamente, la lugubre immagine di Quaresima – Morte.
L’eliminazione fisica della “vecchia” porta alla sua eliminazione spirituale e al ritorno di un sereno ed equilibrato vivere quotidiano, aspirazione suprema dell’umanità intera, sempre in preda a inquietudini e incertezze, che talvolta esplodono con particolare violenza, come appunto nel “sacrificio”